Tornano a Firenze i sindaci da tutto il mondo in ricordo di La Pira. Le città non possono morire – di Lucio D’Ubaldo

Tornano a Firenze i sindaci da tutto il mondo in ricordo di La Pira. Le città non possono morire  – di Lucio D’Ubaldo

Le città non possono morire. Sono parole di Giorgio La Pira, indimenticato sindaco di Firenze, che nell’ottobre 1955 volle lanciare un grido di allarme e di speranza di fronte a una platea di sindaci provenienti da tutto il mondo, convocati a Palazzo Vecchio in nome della pace e del ripudio della minaccia atomica. Fu un evento straordinario perché accese nel  buio della Guerra Fredda, con il pianeta diviso dalla cortina di ferro, la fiammella del dialogo tra popoli e nazioni proprio in virtù dell’iniziativa dei rappresentanti delle capital di tutti i continenti.

L’Italia fu teatro in quella circostanza, grazie all’intuizione del primo cittadino del capoluogo toscano, di una notevole e  inconsueta manifestazione di amore per l’avvenire della civiltà. C’era evidentemente il desiderio di guardare al futuro con occhi diversi. Oltre le buone maniere, forse oltre le stesse accortezze di gesti studiati e predisposti nelle stanze delle cancellerie, si scorgeva la volontà di conferire al dialogo una cifra di autenticità. A riguardo, fece un certo effetto il saluto in aeroporto del Card. Elia Dalla Costa al sindaco di Mosca, Mikhail Jasnov. Dunque, l’originale diplomazia del “Sindaco Santo”, fatta com’è noto di realismo e profezia, non era uno sfoggio di generose intenzioni prive tuttavia di respiro politico, ma l’esercizio di una paziente ricerca di una pur nascosta opportunità capace di animare la “spes contra spem” (speranza contro ogni speranza) evocata nelle lettere dell’apostolo Paolo.

La Pira sollecita ancora la nostra attenzione. Infatti, quasi a quarant’anni dalla morte di questa figura straordinaria di politico e intellettuale, fervido testimone anche nell’impegno amministrativo del messaggio evangelico, sempre a Firenze verrà aperto domani un convegno internazionale dal titolo eloquente di “Uniti nella diversità”. S’incontreranno e discuteranno insieme settanta sindaci di sessanta paesi diversi con l’obiettivo di rilanciare al cospetto di un mondo profondamente mutato l’appello alla pace del precedente incontro fiorentino. Sebbene l’umanità non conosca più il vincolo della dura contrapposizione tra est ed ovest, nondimeno in molte parti del globo affronta tensioni e drammi che hanno indotto Papa Francesco a denunciare l’avvento di una terza guerra mondiale combattuta a pezzetti.

Estremismo religioso e terrorismo rappresentano oggi le minacce più pesanti alla libera convivenza dei popoli. Per certi aspetti l’equilibrio del terrore, su cui ha retto la pace per tutto il tempo del confronto politico-militare dal 1945 fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, lascia il campo a un potenziale di morte e devastazione legato alla corsa a nuovi armamenti sofisticati, con anche il tentativo di sviluppare un proprio deterrente nucleare da parte di nazioni in stato di guerra permanente. Il medio oriente continua ad essere una polveriera. Rintracciare, allora, il filo di Arianna della pace possibile è compito soprattuto delle élite democratiche: non solo a livello dei governi centrali, ai quali si chiede ovviamente di stabilire una cornice di generale coerenza, ma anche dei poteri locali attraverso cui si esprime in modo più diretto la propensione di persone e comunità a condividere un naturale approccio alla dimensione pacifica del genere umano.

La Pira vedeva nelle città lo spazio di un nuovo ordinamento civile capace di promuovere il bene essenziale dell’umanità. Fu molto chiaro, in quel lontano 1955, nel discorso di apertura ai delegati: “Come è stato felicemente detto (…) la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita”. E per essere fedele al suo modello di politico ispirato e pragmatico aggiunse: “A tutti si fa chiaro, infatti, che in una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)…”. In sostanza, precisava ancora” è valida la definizione luminosa di Péguy: essere la città dell’uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio”.

La pace, in definitiva, non era altro che un’incarnazione fin dalle radici, ovvero a partire dall’esperienza municipale, di quella che il filosofo francese Jacques Maritain, amico e ammiratore del sindaco di Firenze, amava definire come forma di “utopia concreta”: in questo caso l’utopia di un buongoverno della città, intriso anche di valori spirituali, in grado di abbracciare l’utopia – sempre concreta – di un mondo finalmente riconciliato e libero dall’incombenza della guerra. Le città potevano imprimere questa svolta.

La Pira pensava, alla resa dei conti, che il retaggio delle tradizioni comunali italiane attribuiva un diritto speciale alle nostre città per un impegno così esaltante. In effetti, neppure oggi le città possono morire, proprio secondo il motto di La Pira, sebbene per ragioni in parte diverse rispetto alla enunciazione originaria; neppure le nostre città che in questo tempo della vita democratica del paese offrono lo spettacolo, in alcuni casi, di profondo distacco persino dalla corretta amministrazione, mettendo allo scoperto i limiti di una classe dirigente locale che scivola colpevolmente sul terreno di una presuntuosa e inaccettabile imperizia.

Lucio D’Ubaldo