Sull’ Everest da solo sicuro di tornare

Sull’ Everest da solo sicuro di tornare

Trentacinque anni fa la mia ascensione, invernale, in solitaria, delle cascate di ghiaccio dell’Everest. Con la consapevolezza che nessuno, in caso di bisogno, poteva salvarmi. Franco Guarino

Nel mondo alpinistico l’inizio del mese di Maggio è considerato uno dei due periodi migliori per tentare scalate himalayane. L’altro periodo corrisponde al nostro Natale.

In questi giorni ricorrono i 40 anni della prima spedizione italiana sulla cima dell’Everest comandata da Guido Monzino. Il 5 maggio 1973 raggiunsero la vetta Rinaldo Carrel e Mirko Minuzzo, poi altri 5 alpinisti seguirono nelle ore successive. L’amico Mirko Minuzzo è mancato qualche anno fa dopo un incidente stradale a Cervinia, mentre con Rinaldo Carrel ogni tanto ci vediamo nella casa museo di Cervinia. Ricordo anche che Carrel e Minuzzo nel 1971 arrivarono al Polo Nord con la spedizione italiana di Monzino.

In quel periodo anche io frequentavo l’Himalaya. In giro per il mondo mi occupavo per le Nazioni Unite delle cause di “estinzione” di popolazioni in pericolo, come Sherpa, Indios, Esquimesi, nomadi del deserto, della Mongolia e altre etnie. Nel ’73, dopo un viaggio via terra verso il Nepal, mentre ero accampato sul fiume Bagmati alla periferia della capitale nepalese Katmandu, cominciai a fare pensieri di scalate Himalayane. Avevo già “fatto” il Kilimanjaro in Africa, l’Ararat in Anatolia, l’Aconcagua nelle Ande .Ma questo non significava che, allora come ora, imi sentissi un alpinista. Sono in realtà un esploratore senza tempo, vivo, per così dire, in “tutte le aree e in tutte le ere” senza grandi problemi anche ora che faccio il reporter.

everest4 fantIn Nepal ho realizzato scalate di acclimatamento su alcuni 6000 metri, compreso il Kala Pattar sul ghiaccio del Khumbu, dalla cui vetta per la prima volta vidi le cascate di ghiaccio e la cima dell’Everest. Durante i periodi di acclimatamento frequentavo monasteri buddisti e tibetani intorno al limite dei 5000 metri…dialogavo con i monaci sul nostro complesso modello di vita paragonandolo al loro. Nel 1977, dovendo scegliere una vetta, decisi per l’ Everest.

Stavo benissimo, l’equilibrio psicofisico che negli anni avevo costruito me lo permetteva. Iniziai il 27 dicembre l’avventura dal campo base a 5.500 metri. Una scalata un po’ anomala durata compressivamente tre mesi.

Questa storia, una delle tante avventurose nella mia vita, dall’inizio alla fine l’ho considerata una questione personale, dialogo umano intimo e un rapporto psicofisico a due: io e la montagna. Alla mala sorte, alla paura, non pensavo. Ero certo però che sarei tornato a casa. Solo pochi amici di Santa Margherita Ligure e mia figlia Greta avevano intuito qualcosa di grosso che avevo in mente, ma non nella sua ampiezza.

Ma torniamo un po’ indietro. Sono nato a Taranto nella città dei due mari, in via Icco. La storia di Icco, Ikkos per esser più precisi, medico e atleta, grande personaggio tarantino mi incuriosì molto. A scuola imparai che egli, tra l’atro, da grande atleta fu vincitore in Grecia delle gare di pentathlon nella 77ª Olimpiade (472 a.C.). Per questo gli venne dedicato un monumento a Olimpia, nel tempio di Era. Icco fu anche il fondatore della ginnastica medica e della dieta atletica, e per primo intuì la grande influenza della ginnastica sulla medicina.

Fin da ragazzo sognavo di diventare un atleta anch’ io, ma la vita in riva al mare non mi faceva pensare minimamente che everest5 fg monabuddun giorno sarei andato sull’ Himalaya. Trasferito in Piemonte, a 11 anni vidi le prime montagne delle Alpi. Cominciai a frequentare le vallate spingendomi dalla Val Pellice sotto il Mont Viso, fino in Valle d’Aosta, dove conobbi Walter Bonatti, mio maestro e grande alpinista. A dire il vero mi interessava molto la gente valdostana, la loro lotta alla sopravvivenza, gli usi e costumi. Mi chiesi allora se anche da altre parti esistesse questo semplice modo di vita, fondato da sentimenti e rispetto della natura.

Sapevo che l’Himalaya inizia dove le Alpi finiscono. In Valle d’Aosta, parlando con altri alpinisti mi resi conto che la parte più difficile dell’Everest non era quella dell’arrivo in vetta ai suoi maestosi 8848 metri, ma passare le cascate di ghiaccio, le famose Ice Falls, tra i 6000 e i 7000 metri, situate prima degli ottomila metri del colle Sud, da dove parte ultimo tratto che porta sulla vetta. Dopo il colle Sud, la vetta dell’Everest si trova a “soli”, si fa per dire, settecento metri circa.

Ricordo che il 7 maggio 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler scalarono l’Everest senza ausilio di bombole di ossigeno, cosa fino a quel momento ritenuta abbastanza impossibile per l’uomo. Messner ci riprovò nel 1980, salendo di nuovo sulla vetta dell’Everest, stavolta da solo e senza aiuto di ossigeno.

Vi racconto, e in pochissimi lo sanno, del mio “piccolo record” sull’Everest, realizzato il 19 gennaio 1979 sulle cascate di ghiaccio, il punto (a mio avviso) più pericoloso del mondo. Per correttezza devo quindi spiegare questo record. Fino al gennaio ‘78 nessuno aveva raggiunto il Colle Sud in i”nvernale” da solo e senza l’ausilio dell’ossigeno. Di conseguenza la mia scalata fu la prima in quelle condizioni, una soddisfazione che non ho mai enfatizzato, ma che rimane pur sempre un vero record.

everest3 guarinoDurante la scalata, ho lottato costantemente, con i centri respiratori depressi, il fiato corto e accelerato con conseguente mal di testa. La poca anidride carbonica presente nell’aria non era sufficiente a stimolare i centri respiratori. Non ho preso medicine per evitare effetti collaterali sconosciuti… prendevo aspirine con la grappa che non congela.

I viveri da alta quota li avevo selezionati con cura. Una parte regalo di una spedizione coreana appena scesa. Loro, tra l’altro, avevano lasciato alcune scalette sui crepacci. I miei pantaloni e la giacca a vento erano in piumino d’oca, utilizzati anche dalla spedizione Monzino.

Quattro portatori Scerpa mi hanno seguito fino a 6.000 metri, poi mi hanno atteso per una settimana scattando qualche foto e girando un breve video. Il 19 Gennaio mi trovavo al Colle sud intorno agli 8100 metri, la nebbia mi impediva di vedere la vetta. Attesi ore e poi presi la decisione più razionale e libera, quella del ritorno.

Procedevo molto lentamente, spesso mi fermavo a riposare immerso un caos di ghiaccio in movimento, un continuo pericolo causato anche dai grandi sbalzi di temperatura esterna e interna dei blocchi di ghiaccio perenne. L’umore era buono, ero aggressivo quanto bastava.

Sono 14 nel mondo le montagne più alte di 8000 metri, rischiose da scalare, sia per le difficoltà tecniche sia per l’elevata altitudine. Comunemente la quota altimetrica al di sopra degli ottomila metri è nota agli alpinisti come la zona della morte a causa del freddo intenso, del forte vento e dell’estrema rarefazione dell’aria. Durante la scalata gli alpinisti possono ricorrere o meno all’uso di bombole di ossigeno a supporto della respirazione.

Le scalate in solitaria non prevedono le bombole a causa del peso. E’ noto che da soli non conviene superare i12 kg tutto compreso, macchine fotografiche e rullini compresi. Allora non esisteva il digitale.
everest2 ice[2]Personalmente, preso da bel altri problemi, non ho nemmeno pensato seriamente alla documentazione foto—video. Ho solo riportato qualche immagine a ricordo personale.

E’ risaputo che nella civiltà delle immagini e del dubbio ad ogni costo, se non ci sono le immagini “non ci sei stato in un certo posto”. Per fortuna ieri come ora non considero questo un problema, ma un problema degli altri o di eventuali sponsor. A proposito di sponsor, sull’Everest li ho esclusi in partenza per un motivo ben preciso.

L’alpinismo è uno sport sublime e non si deve mischiare con il commercio. Quindi ho organizzato comprando tutto di tasca mia e praticando allenamenti in tutto il mondo a spese mie.

Detto questo, posso aggiungere di avere alcune esperienze su roccia, ma prevalentemente negli ambienti alpinistici internazionali sono considerato più un tecnico del ghiaccio; un altro particolare che mi distingue è quello delle scalate difficili sempre in solitaria, non mi sono mai legato in cordata. Il motivo è che se mi lego a un altro e questo scivola, scivolo anche io. E se gli altri sono legati a me e scivolo io, mi spiacerebbe molto trascinare giù i compagni. Questa è una delle caratteristiche che mi sono portato nella vita. Le cose più difficili le faccio da solo per non influire negativamente su nessuno.

Tutte le vette possiedono un loro indice di mortalità inteso come rapporto tra vittime e tentativi totali di scalata, a testimonianza dell’estrema difficoltà e dei pericoli. L’ascesa di un ottomila richiede un’ accurata preparazione psico-fisica e un attenzione ai pericoli dell’ipotermia e del congelamento, oltre, ovviamente, a quelli dovuti agli aspetti morfologici dell’alta montagna (valanghe, crepacci, dirupi, frane…).

everest8 fg everes[2]L’alta quota comincia pressappoco dai 5000 metri, dove la pressione atmosferica diminuisce molto e le temperature (nel mio caso) possono arrivare a 55 sotto zero con il vento che soffia forte e gelido. Al livello del mare l’atmosfera è misurata in 760 mm Hg (millimetri di mercurio). Sulla vetta del Monte Bianco (4810 metri), la montagna più alta d’Europa, è dimezzata e su quella dell’Everest, il “tetto del mondo”, è di soli 236 mm Hg. Non è la concentrazione di gas che importa quando si respira, ma la pressione con la quale arriva nei polmoni.

Se un individuo vive al livello del mare e in poco tempo venisse “depositato” sulla vetta dell’Everest, morirebbe d’ipossia in breve tempo, poiché il cervello non può vivere senza ossigeno per più di tre minuti. L’effetto della bassa pressione viene avvertito dal cuore, dai reni e nella respirazione. I pionieri dell’Himalaya utilizzavano l’ossigeno a partire dai 7000 metri. L’acclimatamento è una messa in opera complessa dell’organismo che permette all’uomo di sopperire alle carenze di ossigeno causate dalla differenza di pressione e a tutte le difficoltà ad esse connesse.

Una mutazione che tocca anche la psiche in quanto l’alta quota è veramente un mondo a parte. Acclimatarsi e abituarsi all’altitudine deve essere fatto in modo naturale. Nel giro di poche ore (più o meno 6), a 3000 metri l’organismo “fabbrica” molti più globuli rossi, i veicoli dell’ossigeno. Allo stesso tempo il cuore e i polmoni trovano un altro ritmo: i battiti aumentano di intensità e la respirazione pure. Sopraggiungono modifiche al sistema ormonale e cambiamenti sul piano dei tessuti muscolari e adiposi. Ma non solo. Altri fenomeni arrivano a complicare questo adattamento. E’ un universo invivibile, in gran parte sconosciuto a chi non lo prova.

Il mal di montagna si preannuncia sempre con un leggero mal di testa e può rapidamente evolvere in male acuto sotto forma di edema polmonare e/o celebrale, spesso conseguenza di un cattivo acclimatamento dovuto a una salita compiuta troppo rapidamente, a fattori di sensibilità individuali alla quota, a cattive condizioni esterne (freddo vento etc.) e non ultimo, a fattori psicologici (tensione, paura). Il solo rimedio è la discesa più rapida possibile a quote inferiori, unita alla somministrazione di ossigeno e di diuretici.

everest6 fg katMa in alcune zone dell’Himalaya è praticamente impossibile scendere rapidamente di quota. Nel caso di edema polmonare non vi sono sintomi che ne preannuncino l’imminente arrivo. In ogni caso, una respirazione molto rauca, un colorito violaceo e tosse persistente rappresentano di certo i primi seri segnali. Più complesso è l’edema celebrale: mal di testa, vomito, insonnia, allucinazioni, delirio e coma sono comunque, in successione, passi che possono condurre in breve alla morte.

In altitudine, si perdono numerosi neuroni. Per una notte trascorsa a 8000 metri occorre più di un anno per riprendere appieno le proprie capacità intellettuali. Cosa si prova è difficile da spiegare, tra le altre cose, trascorrevo le notti in passeggiate immaginarie, anche a dialogare con persone invisibili. Tutto ciò legato a “posizione a uovo” per non essere portato via dal vento forte. Per questo scalavo solo due ore al giorno tra blocchi enormi del ghiaccio in movimento, una specie di roulette russa sul confine Tibetano.

Nel caos di ghiaccio si perdono il senso delle distanze e del tempo. Il mondo dell’alta quota è il mondo delle sorprese, dell’incertezza. Come se si entrasse in altri spazi, in altri tempi, in altre persone. Un mondo a parte non per tutti. Questo universo di nuove percezioni è chiamato “la zona della morte”. Si viene proiettati in una scnosciuta dimensione per i sensi e per l’intelligenza. E’ comunque un’ esperienza personale che ognuno vive a gradi diversi.

Ma una delle verità più impressionanti è che l’alta montagna è decisamente “abitata dalla morte”. Capita anche, infatti, di dover dormire accanto a dei cadaveri di uomini che non ce l’anno fatta e che non sono stati mai “recuperati”, appesi a corde fisse, magari arrivati sulla cima di notte con gli occhi gelatie le mani semi paralizzate. Ho sempre pensato che l’altitudine attrae come una droga. Così spesso ci si dimentica dei rischi che comporta. Sapevo che in caso di bisogno nessuno mi avrebbe salvato, anche se ero sicuro di ritornare. E la discesa, a volte, è più complessa della salita.

everest7 fg carrel[1]Cosa rimane oggi di tutto ciò? La soddisfazione di aver portato tra i ghiacci eterni le bandiere, Italiana e Nepalese, i gagliardetti di Taranto e di Santa Margherita Ligure, dove abitavo. L’essere tornato cambiato, maturo, modesto e semplice per continuare a vivere tutti i giorni nella trasparenza intellettuale e tra tutte le genti. Nel saper rinunciare alle cose impossibili, capire e mantenere dignità, lealtà, rispetto del prossimo e della natura. Devo molto all’assistenza delle letture di Charles Darwin con “L’origine della specie”.

L’Everest è stato un regalo che mi sono fatto da solo in un importante palestra di vita, una lezione molto intima che conservo vivendo nella mia terra piatta in riva al mare. La scalata all’Everest per me è stata anche un opera d’arte che mi sono voluto permettere. Non è necessario che gli altri capiscano o l’apprezzino. Se non accade non è un problema mio. Dedico questo racconto a mia madre, scomparsa un mese fa, alla quale di questa avventura non ho mai parlato molto, evitando di metterla in ansia. Magari ora qualcuno lassù gli racconterà che un giorno suo figlio Franco per qualche giorno è stato l’uomo più alto della terra e più vicino al cielo. Ma questa è un’altra storia.

Franco Guarino