Migrati ed Europa: perché non è vero che è un problema solamente italiano- Gli ultimi dati smentiscono tanti luoghi comuni

Migrati ed Europa: perché non è vero che è un problema solamente italiano-  Gli ultimi dati smentiscono tanti luoghi comuni

E’  Frontex, l’agenzia europea delegata a sorvegliare i confini dell’Unione, a pubblicare gli ultimissimi dati: gli arrivi a luglio 2015 sono stati 107 mila. La metà dei migranti sono sbarcati nel Mar Egeo, passando per la Turchia. Si è trattato, per lo più, di profughi  siriani ed afgani.

Tra gennaio e luglio di quest’anno, in Europa sono arrivate  complessivamente 340 mila persone. Un numero superiore agli sbarchi dell’intero 2014, durante il quale sono arrivati 280 mila migranti.

Dopo la Grecia, è l’Ungheria a subire la pressione migratoria maggiore con 34 mila arrivi nel mese scorso, segue l’Italia con 20 mila.

I dati, dunque,  sconfessano la percezione nostrana di trovarci da soli di fronte a un fenomeno destabilizzante, che ci pone in una condizione di continua emergenza. In realtà, in questa fase, l’emergenza riguarda più il Mediterraneo orientale di quello centrale.

Nei mesi precedenti, la rotta Balcanica sembrava in calo, ma ciò era dovuto solo a fattori contingenti: il caos libico, il completamento del muro anti-immigrazione fra Grecia e Turchia e l’assorbimento da parte della penisola anatolica di gran parte dei profughi provenienti dai conflitti orientali, Siria in primis.

E’ proprio la saturazione del potenziale di accoglienza turco che sembra aver riaperto la rotta verso gli arcipelaghi ellenici. Ankara, infatti, da sola accoglie più profughi siriani dell’intera Unione Europea, raggiungendo quest’anno la cifra record di due milioni e mezzo di persone che hanno attraversato il confine con la Siria.

Agli inizi di questo decennio, le autorità turche hanno seguito una politica di accoglienza dei profughi levantini, confidando nel fatto che il conflitto siriano sarebbe stato di breve durata. Dopo quattro anni, e senza alcun aiuto concreto da parte dell’Europa, la Turchia non può né vuole accogliere altri profughi, anche perché il rallentare della propria economia ha esacerbato la tensione sociale nei confronti della piccola e media borghesia siriana trasferitasi in massa nell’Anatolia.

Ankara si è così trasformata, suo malgrado, nel più importante cuscinetto fra le masse dei migranti ed il continente europeo proprio mentre, con la creazione del cosiddetto “spazio Schengen”, l’Europa si è trasformata in un territorio il più possibile chiuso verso l’esterno. Al punto di far parlare molti osservatori di “fortezza europea” con tanto di “mediterraneo” fossato.

Grazie al Trattato di Dublino, infatti,  la pressione migratoria viene per lo più delegata alla “periferia” meridionale i cui paesi, Italia e Grecia in particolare, con l’aggiunta di Malta e Cipro, costituendo la prima porta d’accesso per un migrante, si trovano costretti da un vecchio accordo mai adeguato alle nuove situazioni a farsi carico della prima e definitiva assistenza sia dei richiedenti asilo, sia di quelli che sono definiti immigranti clandestini.

Gli sbarchi nel Mar Egeo dimostrano anche il fallimento della strategia di innalzare muri, sperimentata dalle autorità elleniche con l’innalzamento di una barriera di dodici chilometri lungo il fiume Evros. Un’idea recentemente ripresa anche dal presidente ungherese Orban.

Secondo molte voci levatesi contro queste barriere, cercare di fermare con un muro la disperazione di chi si mette in marcia da un continente ad un altro per ragioni di guerra o di fame è insensato oltre che inumano: chi non ha niente da perdere cercherà necessariamente un’altra strada, anche se dovesse rivelarsi più pericolosa.

Il fenomeno migratorio non può più considerarsi un’emergenza, dal momento che è divenuto un problema costante che né i governi nazionali, né le autorità europee di Bruxelles si stanno dimostrano all’altezza di affrontare.

Alla base dell’inconsistente risposta europea alla questione migrazione vi è un problema di fondo che precede persino il malaugurato Trattato di Dublino.

E’ la figura stessa del rifugiato, così com’è definita dalla Convenzione di Ginevra nel 1951, a dimostrarsi obsoleta nel mondo della globalizzazione. I flussi migratori, infatti, riguardano percentuali sempre più rilevanti della popolazione mondiale e non solo per il diffondersi di conflitti nelle zone più disastrate del mondo.

Alla base vi è anche un disequilibrio economico fondamentale, di livello continentale quando non globale, la cui origine storica è innegabile, seppur spesso dimenticata. A questo bisogna aggiungere i moderni mezzi di comunicazione i quali, raggiungendo l’intero mondo in modo capillare, hanno istillato anche nei più poveri l’ambizione allo stile di vita e al benessere occidentale che, del resto, è rappresentato dagli stesi media dei paesi più opulenti come il massimo di qualità di vita raggiungibile.

Come si fa a discernere, allora, tra chi fugge per motivi da noi definiti “leciti”, perché giustificati da una guerra o da una dittatura, e coloro lo fanno, invece, per motivi “illeciti”, quelli giustificati solamente dalla fuga dalla fame e dal sottosviluppo?  Spesso, tra l’altro,  queste motivazioni si intrecciano e si sovrappongono in un mondo diventato sempre più complesso ed interdipendente tra le sue parti.

Del resto, anche solo il fatto di rischiare la vita per cambiare paese è, di per sé, una prova dell’assenza di prospettiva, della disperazione che accomuna ogni singolo migrante, clandestino o rifugiato che sia, e qualunque sia la motivazione ultima da cui è spinto.

Certamente l’Europa non è in grado di accogliere tutti, ma altrettanto sicuramente può e deve fare di più. Un Paese in via d’invecchiamento come l’Italia dovrebbe vedere in queste persone ambiziose e disposte al sacrificio una risorsa economica e demografica.

L’immigrazione è anche uno dei più antichi strumenti di redistribuzione della ricchezza e, quindi, anche di crescita economica e di opportunità per le stesse aree più evolute e più produttive. L’Italia che conosciamo oggi è un Paese ricco anche grazie alle rimesse dei connazionali più coraggiosi partiti a cercare fortuna Oltreoceano nel corso degli ultimi due secoli.

Parliamo degli stessi che nei libroni di Ellis Island, l’isola di New York da cui sono passati circa 12 milioni di immigrati negli Stati Uniti, erano malignamente registrati sotto la categoria di “negri bianchi”.

Luca Bertuzzi