L’umiliazione sulle rive dell’Allia rese invincibile l’esercito romano

L’umiliazione sulle rive dell’Allia  rese invincibile l’esercito romano

Studiando la storia romana si resta sempre meravigliati dalla stupenda macchina da guerra creata dai nostri antenati, che permise loro di realizzare, partendo da un misero villaggio dell’area laziale, il più grande impero del mondo antico. Quali furono i fattori che spinsero questo popolo ad adottare uno stato di guerra praticamente permanente, ma soprattutto a ricercare strenuamente la vittoria ad ogni costo? Per quanto riguarda il primo interrogativo, sicuramente alla base ci fu la necessità di autodifesa da minacce incombenti o future, il desiderio di onore da parte della classe dirigente, la ricerca di continua manodopera servile con l’importazione di schiavi. Ma è soprattutto il secondo interrogativo, la ricerca della vittoria ad oltranza, con tutti i suoi risvolti psicologici, ad interessare gli uomini del nostro tempo. Un drammatico episodio segnò profondamente il comportamento e l’orgoglio del popolo romano nei secoli a venire: la battaglia sul fiume Allia contro i Galli Senoni.

Dal VII secolo a.C. popolazioni di origine celtica erano presenti nell’Italia Settentrionale, ma nel VI secolo, una migrazione di massa li portò all’occupazione della Pianura Padana, che venne denominata in seguito “Ager Gallicus”. La popolazione dei Senoni andò ad occupare, in seguito, l’attuale Romagna, fino ad Ancona e, nel 391 a.C., al comando di Brenno, si spinse, fino a Chiusi, in Etruria. Gli Etruschi chiesero aiuto a Roma, che decise di non prendere le armi, bensì di inviare tre ambasciatori.

allia5Quest’ultimo ruolo aveva origini antiche; secondo Livio, poco dopo la nascita della città si iniziò a designare annualmente un uomo di provata onestà con il ruolo di ambasciatore presso le popolazioni limitrofe (pater patratus), con lo scopo di dirimere pacificamente le controversie. Egli veniva prima consacrato, non poteva toccare armi e versare sangue.

Nel caso di Chiusi, i tre ambasciatori romani non solo presero parte ad un combattimento dalla parte degli Etruschi, ma addirittura uno di essi uccise un comandante dei Galli Senoni. Questi ultimi chiesero allora giustizia; il Senato romano riconobbe le loro ragioni, ma, essendo i tre suoi rappresentanti appartenenti alla Gens Fabia, non prese provvedimenti punitivi. Brenno, indignato, si rivolse allora contro Roma, che si preparò alla difesa con un esercito improvvisato.

Il 18 luglio del 390 a.C., avvenne lo scontro, sulle rive dell’Allia (Clades Alliensis), un fiumiciattolo confluente del Tevere (l’attuale Fosso di Bettina), ad una ventina di chilometri da Roma, sulla Via Salaria. E fu il disastro. Racconta Tito Livio:

“Non appena le grida dei Galli arrivarono alle loro orecchie, i Romani, prima ancora di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza, si diedero alla fuga, ancora illesi. In battaglia non ci furono perdite. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nella confusione della fuga, si intralciavano a vicenda. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell’ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu una grande strage. Moltissimi, non sapendo nuotare o stanchi, appesantiti dalle corazze e dal resto dell’armatura, annegarono nella corrente. La più grossa parte dell’esercito riuscì a riparare a Veio. Da lì, non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno un messaggero con la notizia della disfatta.”

Ma Roma era in grado di difendersi? Nel periodo dei re etruschi la città era stata dotata di una vasta fortificazione, le mura di Servio Tullio, che, dopo l’avvento della Repubblica, non erano state sottoposte a manutenzione. Anzi, durante il V secolo, il separatismo tra i vari colli si era sempre più accentuato. brenno1000Di conseguenza, nel IV secolo, il sistema difensivo della città era costituito da una serie di fortini, uno per ogni colle, tra i quali solo quello del Campidoglio sembrava in grado di poter tenere testa ad un’aggressione nemica.

Secondo Polibio, i Galli arrivarono a Roma tre giorni dopo, mentre Livio, fonte forse più veritiera, ci comunica che ciò accadde la sera stessa. La popolazione dei quartieri più bassi si era rifugiata sui vari colli fortificati, mentre ciò che restava dell’esercito si era asserragliato sul Campidoglio. Il giorno successivo Roma fu saccheggiata, devastata e incendiata (basti pensare che la maggior parte delle abitazioni di allora era in legno). Gli scavi archeologici del 1907 sul Palatino hanno confermato tutto ciò; altre devastazioni accertate sono state quelle del Foro.

L’unico baluardo a resistere fu il Campidoglio, grazie alla sua posizione naturale. I Galli attaccarono continuamente, con un’incursione sventata dalle famose oche capitoline, ma invano. Dopo sette mesi di assedio, sfiniti e con l’obbligo di rientrare per un’invasione dei loro territori da parte dei Veneti, scesero a patti, accettando il pagamento di un tributo.

Per i Romani l’onta era completa. Nei secoli successivi gli storici cercheranno di modificare gli eventi, narrando che Marco Furio Camillo arrivò un istante prima del pagamento, rompendo il patto e liberando con la spada il territorio dagli invasori. Sta di fatto che i Galli rientrarono tranquillamente in patria con il bottino dell’oro di Roma intatto.

Questo capitolo della storia venne letto come un’umiliazione insopportabile per l’orgoglio nazionale, soprattutto quando la città divenne la capitale del mondo di allora, tanto che il 18 luglio venne proclamato “dies nefastus”.

Ma Roma non subì solo questa sconfitta. Basti pensare alla vergogna delle Forche Caudine inflittagli dai Sanniti. Tutti episodi che segnarono profondamente l’animo dei Romani, portandoli alla ricerca pedissequa della vittoria, ad ogni costo.

Stefania Giannella