La scomparsa di Giulio Regeni nell’Egitto di Al Sisi. Le ipotesi oscillano fra gli apparati repressivi fuori controllo e un incidente premeditato. In un caso o nell’altro, il coinvolgimento di settori del regime appare innegabile – di Luca Bertuzzi

La scomparsa di Giulio Regeni nell’Egitto di Al Sisi. Le ipotesi oscillano fra gli apparati repressivi fuori controllo e un incidente premeditato. In un caso o nell’altro, il coinvolgimento di settori del regime appare innegabile  – di Luca Bertuzzi

Tutto d’un tratto, con la morte di Giulio Regeni, i quotidiani italiani scoprono che a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste vi è una sanguinosa dittatura che opprime e sopprime il proprio popolo.

E no, non si parla di Bashar al-Assad. Peggio ancora. Perché in questo caso l’Italia come il resto dell’Europa hanno una responsabilità diretta e innegabile nella presa del potere e del consolidamento del regime. Il generale Al Sisi, infatti, è diventato presidente dell’Egitto nel 2013 con un colpo di Stato benedetto da buona parte dell’Occidente poiché ai danni dello scomodo tanto più democraticamente eletto Mohamed Morsi. Quest’ultimo era inizialmente sostenuto da Washington ma fu poi prontamente rinnegato in nome degli equilibri regionali.

Dopo trent’anni di presidenza Mubarak, l’Egitto è quindi tornato al passato con una dittatura militare, un capitolo apparentemente chiuso nel 2011 con le proteste di piazza Tahrir, che comunque certificarono il cambio di regime con una bassissima legittimazione dovuta alla partecipazione elettorale sotto il 30% degli aventi diritto.

Tuttavia, dopo la Primavera Araba, i Fratelli Mussulmani arrivati al potere con Morsi erano sgraditi al maggiore alleato dell’Occidente nella regione, l’Arabia Saudita, che contro di loro ha saputo far valere tutto il proprio peso internazionale, soprattutto con i paesi con cui ha legami di natura strategica quali il commercio di armi –leggasi Francia.

Pertanto, in nome della geopolitica regionale in cui il paese arabo più popoloso serve come indispensabile fattore di stabilizzazione, almeno in questo caso l’Occidente sembrerebbe aver accantonato gli ideali con cui è solito impartire lezioni al mondo sostituendo a un governo scomodo, seppur democraticamente eletto, una comoda dittatura.

Il ritrovamento del cadavere del ricercatore italiano Giulio Regeni, scomparso al Cairo lo scorso 25 gennaio scorso, non sembrerebbe altro che l’ennesima manifestazione di un regime sostenuto dalla violenza.

Il giovane, infatti, aveva cominciato a collaborare con il Manifesto pubblicando sotto pseudonimo poiché temeva per la propria incolumità. Si stava, inoltre, specializzando nella conoscenza dei movimenti di opposizione egiziani e si trovava al Cairo, appunto, per scrivere la propria tesi universitaria sulle organizzazioni sindacali del paese delle piramidi.

Secondo il New York Times, i segni sul corpo del ragazzo sembrerebbero inconfondibilmente riconducibili al trattamento subito da parte delle forze di sicurezza egiziane. La morte sarebbe sopraggiunta in seguito alla tortura, come dimostrerebbero i segni lasciati da sigarette spente sulla sua pelle, una parte dell’orecchio tagliata e le conseguenze di traumi cranici letali.

L’efferatezza del delitto, il fatto che il cellulare del giovane italiano sia stato disconnesso dalla rete per non registrarne gli spostamenti, il modo in cui è stato ritrovato il corpo al margine di una trafficata autostrada alla periferia del Cairo giorni dopo la scomparsa costituirebbero tutti elementi insieme destinati a contraddire la versione delle autorità egiziane che tentano di accreditare la tesi che il Giulio Regeni sia finito coinvolto in un caso di criminalità comune.

Le contraddizioni fra le versioni della polizia, della magistratura e del ministero dell’Interno egiziani, così come l’impressione che l’inchiesta proceda a rilento hanno destato immediatamente a Roma il sospetto di un tentativo d’insabbiamento.

Per questo l’Italia ha concordato con il Cairo l’invio sul posto di un pool di sei investigatori. Tuttavia le possibilità di manovra di tale squadra appaiono sin da subito limitate. Principalmente perché, se da un lato l’ipotesi della criminalità comune è poco credibile, dall’altro seguire la pista dell’omicidio politico causerebbe inevitabili rotture diplomatiche fra i due paesi.

Se, come molti elementi sembrerebbero suggerire, Giulio Regeni è morto per mano delle forze di sicurezza egiziane, appare probabile che ciò sia avvenuto senza che Al Sisi ne fosse a conoscenza.

Gli squadroni della morte sguinzagliati contro l’opposizione cui Regeni era vicino, infatti, hanno in sostanza mano libera contro gli attivisti egiziani impegnati contro il regime.

Può darsi quindi che abbiano ucciso il ricercatore italiano senza rendersi conto delle conseguenze diplomatiche del loro gesto. Oppure, come sostiene Andrea Purgatori sull’Huffington Post, tali conseguenze erano esattamente ciò che gli esecutori del delitto cercavano. Una manovra per screditare il regime agli occhi di un partner strategico come l’Italia con risonanza internazionale.

La scomoda verità è che, non solo l’Occidente ha sostenuto una rivolta di piazza, salvo poi fare marcia indietro quando il regime che ne scaturì si rivelò incompatibile con i suoi interessi strategici nell’area, ma soprattutto che la dittatura di Al Sisi si rivelerebbe talmente brutale da far rimpiangere agli egiziani quella di Mubarak.

La giustificazione di un tale tasso di violenza sarebbe quello della lotta al terrorismo. Quel terrorismo islamista che aveva fatto vedere nella giunta militare un argine alla destabilizzazione del Medio Oriente, a maggior ragione a seguito delle crescenti, allarmanti infiltrazioni jihadiste nel Sinai, la penisola a ridosso di Israele e di quell’importantissimo snodo strategico rappresentato dal Canale di Suez.

In molti, però, si chiedono se la lotta al terrorismo non sia diventata una vera e propria caccia alle streghe che tutto giustifica, compreso la sospensione dello Stato di diritto e della libertà di opinione.

Lo scorso agosto, l’ENI, il gigante italiano dell’energia, ha scoperto davanti alle coste egiziane il più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Un ritrovamento che insieme con la consolidata presenza d’importante altre imprese italiane in Egitto lega saldamente Roma e il Cairo.

Tuttavia, sempre secondo il NYT, i rapporti fra le due capitali sarebbero oggi gravemente danneggiati dal caso Regeni, molto più di quanto appaia nelle versioni ufficiali.

Luca Bertuzzi