Incontro con Corrado Veneziano

Incontro con Corrado Veneziano

Corrado Veneziano ha da poco concluso una sua personale nella sua Ecos gallery di via Giulia, a Roma. Strisce pedonali, binari ferroviari, marciapiedi, tombini sono protagonisti delle sue ultime opere, che si propongono sia come artificio per denunciare il nostro spazio sempre più amorfo sia per cercare un’anima in ogni luogo che attraversiamo.

Nel catalogo, ancora disponibile in galleria, mentre Marc Augè nel suo testo critico ritiene che “l’arte di Veneziano trasforma i non-luoghi in spazi vitali” Achille Bonito Oliva parla di una pittura che “lavora sulla riqualificazione dei luoghi e che ha alle spalle il bisogno e l’impegno di una memoria: una memoria capace di ridare un “presente” e un “passato” spaziale, a un’architettura abbandonata”.

L’opera di Veneziano non si serve di un’iconografia eclatante, ma ripropone spazi e visioni altrimenti dimenticate, cogliendone una prospettiva originale. Abbiamo incontrato l’artista, alle prese con “bozzetti” di ispirazioni che, chissà, potranno presto o tardi trovar forma in nuove opere. Veneziano oltre ad essere un artista visivo gestisce insieme a Sylvie Renault la galleria in cui espone.

“Come è nata la tua passione per la pittura e come si integra con i tuoi molteplici interessi?”

“Sono il figlio più piccolo di una famiglia originaria della Basilicata; e in casa mio padre e poi mio sorella e mio fratello, in modo sempre più permanente, hanno dipinto. Mio fratello in particolare (di me più grande di oltre 12 anni) è stato negli anni Ottanta un pittore molto apprezzato. Ho insomma, come si dice, respirato un clima che ha fatto dell’arte figurativa una propria compagna: per riempire vuoti, per materializzare sogni, per evocare realtà altrimenti non reali. Anch’io ho dipinto e però (per ritagliarmi uno spazio differente? per vera vocazione? per pura causalità?) ho successivamente cominciato a studiare le parole: ho dapprima fatto teatro e poi, in modo sempre più compiuto e accademico, sono diventato uno specialista di didattica della lingua italiana: soprattutto attento ai meccanismi intonativi e sonori del nostro vocabolario. GIUSYTRAG1Durante questi studi-pubblicazioni-insegnamenti ho però mantenuto costante il mio piacere e la mia ricerca artistica: ho continuato, sempre, a dipingere”.

“È invece negli ultimissimi anni – prosegue l’artista – che, in parallelo con una perdita di centralità, da me percepita, della parola,ho ripreso in modo più marcato e continuo la pittura. E se, universitariamente, mi sto dedicando sempre più ai processi non verbali comunicativi ed espressivi, trascorro larga parte del mio tempo a misurarmi con tele-pennelli-olii. Ho moltiplicato le mie letture sull’arte (sulla sua “necessità biologico-culturale”, oltre che sulla sua storia e sui suoi modelli) e ho cominciato a rafforzare le mie ricerche pittoriche: a esplorare linguaggi cromatici, prospettici, formali. Sono (mi percepisco, mi propongo come) un linguista-artista. Mi piacerebbe specializzarmi e potenziare questa duplice tensione”.

“I tuoi lavori emanano una grande pace, sono immagini statiche che sembrano però avere un loro movimento interno. Sei d’accordo? Vuoi raccontarmi dell’anima che le sottende?

“Sì, credo molto nella dimensione lenitiva dell’arte. E allo stesso tempo ne detesto una componente consolatoria o nostalgica. Lo so, il confine è labile, ed è per questo che impiego molto tempo a concludere ogni mio lavoro. Esistono equilibri complessi che ogni pennellata (e ogni linea, prospettiva, forma) altera e ricombina: un colore più denso, un addolcimento del tratto, la stessa estensione della tela orientano, sfidano e allo stesso tempo condizionano il lavoro. E quello che mi interessa è che alla fine il quadro sia attraente e rafforzi una percezione estetica “perturbante”: che sveli una tensione alla bellezza che ogni essere umano inevitabilmente (al di là di ogni regressione) porta con sé. Dirlo è rischioso (so bene quanto il concetto di un bello assoluto sia parziale e pericoloso – e la frase va esposta con cautela), ma chiedo a ogni mia opera di risultare “bella”: di creare un dialogo rasserenante e compiuto, profondo, con lo spettatore”.

Hai qualche grande a cui ti ispiri?

“Uno in particolare no, ma sono un discreto conoscitore e amante dell’arte del ‘400-500: una serie di artisti, da Antonello da Messina a Bernardino Luini, a Tiziano, ma poi anche Pontormo,, che si è misurata con la contraddizione tra arte che aggredisce e coinvolge, che deve turbare e scuotere e forse anche minacciare, tipica della concezione spirituale medievale, con un’arte formalmente gradevole e ineccepibile, e che smette però di relazionarsi emotivamente e psicologicamente con l’ascolto-sguardo dello spettatore. In effetti, in Italia, abbiamo una produzione rinascimentale così bisognosa di essere scandagliata e compresa, da imporre una revisione anche didattica del suo porgersi. Capita che in alcuni momenti della storia alcune eccezionalità si affollino (pensiamo a quanto spazio occupa nella storia della filosofia il brevissimo periodo che separa Socrate da Aristotele), e sarebbe il caso di dedicare uno spazio molto più ampio a equivalenti periodi straordinariamente ricchi che la storia artistica moderna italiana ci ha lasciato”.

Hai aperto Ecos Galley da circa un anno te la senti di dare un tuo punto di vista sul mondo dell’arte nel quale ti sei con tanto entusiasmo immerso?

“Ho aperto una galleria (sicuramente) per caso e anche però (probabilmente) per necessità;: un modo per obbligarmi a capire per intero la circolarità che lega produzione e fruizione dell’arte. Mi piace selezionare le opere (e argomentare le scelte) e mi interessa moltissimo comprendere le logiche – anche di mercato – che orientano gusti-acquisti-fortune. Mi piace altresì approfittare di spazi e momenti particolari (la mia mostra cade a luglio, in un periodo sicuramente povero di appeal) per esibire le mie opere e la mia personale produzione pittorica. Non ho timore nel presentarmi come artista-gallerista, e credo anzi che il (ancorché minoritario) senso di sospetto che talora ho percepito nei miei confronti testimoni una dimensione riduttiva e un po’ provinciale di rapportarsi all’opera d’arte. Ogni artista è – comunque, inevitabilmente (e al di là di personali strategie) – un venditore, e ogni gallerista (Bonito Oliva ce lo ricorda giocosamente e provocatoriamente), è un artista: impegnato a modulare e mediare bisogni e aspettative con idee e fusti: un doppio momento di effimero che è cuore e sostanza del mondo artistico.

Oltre alla galleria gestisci anche il Music Inn. Come lo hai rinnovato?

“Ho preso lo spazio del Music Inn perché stavo realizzando un lavoro per la Rai (una lunga fiction per bambini), e l’ho subito dopo aperto a rassegne di teatro, di cinema, di musica. Poi quest’ultimo ambito (quello musicale) ha preso – giustamente, in onore alla tradizione del locale – il sopravvento. Insieme con me ci sono ora altri due soci esperti di jazz e questo mi conforta molto. La vecchia, più trasversale mia direzione l’ho ora trasferita in galleria, ma spero sempre di realizzare eventi e performance che mettano insieme, armonicamente, i due differenti e contigui luoghi”.

Giusy Lauriola