Che fine farà l’autonomia della Polizia Giudiziaria? – di Ruben Di Stefano

Che fine farà l’autonomia della Polizia Giudiziaria? – di Ruben Di Stefano

In una silenziosa giornata d’estate, precisamente il 19 agosto 2016, veniva approvato dal precedente Governo il Decreto Legislativo n. 177, contenente “Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (G.U. 12 settembre 2016 n.123).

Fin qui, tutto bene. Anzi, finalmente si è avviato il tanto auspicato processo di riorganizzazione delle Forze di polizia finalizzato a razionalizzarne l’impiego e valorizzarne le potenzialità, con l’obiettivo di migliorarne la funzionalità ai fini dell’espletamento dei connessi compiti istituzionali e della conseguente risposta alla richiesta di sicurezza dei cittadini.

Ad esempio, si dettano pregevoli disposizioni per la gestione associata dei servizi strumentali delle Forze di polizia e per la realizzazione sul territorio nazionale del servizio “Numero unico di emergenza europea 112”; si disciplina l’assorbimento del personale del Corpo forestale dello Stato e delle relative funzioni nell’Arma Carabinieri, etc.

Tuttavia, scorrendo il provvedimento, si rimane abbastanza basiti da ciò che si può leggere tra le ultime norme che lo compongono: si tratta del comma 5, art. 18, “Disposizioni transitorie e finali”, Capo V, “Disposizioni di coordinamento”, il quale dispone testualmente che, “Entro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale” (sic!).

In altre parole, stando al tenore letterale della norma, ogni appartenente ad una sezione di Polizia Giudiziaria (poliziotto, carabiniere o finanziere che sia), dopo aver consegnato un rapporto (i.e., un’informativa di reato, cd. notizia criminis) al P.M. competente ovvero all’esito di un accertamento eseguito dietro richiesta della magistratura, dovrebbe comunicarlo al proprio superiore, il quale, a sua volta, informerà il proprio e così via fino al vertice della scala gerarchica: rispettivamente, il Ministro degli Interni per la polizia di stato, quello della Difesa per i carabinieri e quello dell’Economia e delle Finanze per la guardia di finanza.

Al di là del risvolto politico, che non credo abbia bisogno di illustrazioni, appare evidente come la norma in esame contenga un’evidente deroga alla regola del segreto sugli atti d’indagine espressamente fissato dall’art. 329 del c.p.p., secondo il quale “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.

In tale ambito, il “segreto” assume un peculiare significato, strettamente funzionale a garantire il buon esito delle indagini e, quindi, l’eventuale accertamento della sussistenza di un reato: spesso e volentieri, infatti, è proprio la c.d. “fuga di notizie” a vanificare mesi e mesi di attente indagini portate avanti dalla magistratura con il fondamentale ausilio della polizia giudiziaria, come dimostrano anche i recenti casi di cronaca.

Ma v’è di più. A mio avviso, il rischio concreto è che si vada ad intaccare anche l’autonomia e l’indipendenza della Polizia Giudiziaria nell’esercizio della propria attività.

Non si dimentichi, invero, che le sezioni di polizia giudiziaria sono uffici di polizia presenti presso i Tribunali, che svolgono attività investigativa senza particolari limiti di materia, alle dirette dipendenze dell’Autorità giudiziaria.

In questi uffici è presente, infatti, personale appartenente alle diverse forze di polizia che, se a livello amministrativo è gestito dall’amministrazione di appartenenza, sul piano operativo dipende esclusivamente dall’Autorità Giudiziaria.

Con parole diverse, si tratta di investigatori che vengono distaccati presso gli uffici giudiziari ove svolgono il loro servizio in abiti civili, operando a stretto contratto con i magistrati: diciamo che tra questi e i primi si viene a creare un naturale rapporto fiduciario e professionale, grazie al quale viene garantita non solo la riservatezza delle indagini in corso, ma la stessa possibilità che l’indagine venga iniziata e portata avanti sino all’accertamento del reato (quando sussistente), lontano e al riparo da qualsivoglia ingerenza esterna.

Ed invero, se l’art. 56 c.p.p. stabilisce che “le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria”, l’art. 59 c.p.p. chiarisce, da una parte, che “le sezioni di polizia giudiziaria dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite” e, dall’altra, che “l’’ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria è responsabile verso il procuratore della Repubblica presso il tribunale dove ha sede il servizio dell’attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente”.

Infine, quale corollario dell’indipendenza della Polizia Giudiziaria rispetto alla propria gerarchia interna, l’articolo in parola stabilisce altresì che “gli appartenenti alle sezioni non possono essere distolti dall’attività di polizia giudiziaria se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono”.

Appare chiaro come tutto sia stato regolato al fine di garantire l’autonomia della Polizia Giudiziaria rispetto al corpo di appartenenza, facendo in modo che nel corso delle indagini giudiziarie questa abbia come referente naturale il solo magistrato affidatario dell’indagine; e ciò non solo per assicurare e la segretezza stessa delle indagini fino alla loro conclusione, ma anche per scongiurare possibili interferenze o pressioni interne o esterne che siano.

A ben vedere, dunque, una norma che avrebbe dovuto recare esclusivamente una serie di disposizioni prevalentemente di carattere transitorio ed interpretativo, funzionali all’attuazione del provvedimento in esame, contiene al suo interno un periodo idoneo ad alterare in modo significativo il già delicato equilibrio tra il potere giudiziario e quello esecutivo.

Si aggiunga che una circolare diramata l’8 ottobre 2016 dal capo della polizia Franco Gabrielli sembra non solo confermare alla lettera il contenuto della norma in esame, ma anche ampliare la sua portata, specificando che i superiori gerarchici dovranno essere informati anche degli ulteriori sviluppi “rilevanti” dell’inchiesta, “fino alla fine delle indagini preliminari”.

A questo punto, sinceramente, non si coglie il senso della chiosa contenuta nel medesimo provvedimento secondo la quale, nel trasmettere alla propria scala gerarchica le informative di reato, la polizia giudiziaria dovrà “preservare il buon esito delle indagini in corso”, selezionandole in modo “graduale” e al solo fine di “garantire un adeguato coordinamento informativo”.

Tanto detto, non è un caso che, oltre ai dubbi del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino, Armando Spataro, il quale non ha escluso che ci possano essere dei profili di incostituzionalità della norma in oggetto, la stessa Associazione Nazionale Magistrati ha recentemente deliberato di incaricare la propria Commissione di Studio Diritto e Procedura Penale, affinché possa redigere un elaborato sul contenuto dell’art. 18, comma 5, D.lgs. 177/2016, evidenziandone le criticità.

Pertanto, a mio avviso, è più che auspicabile un tempestivo intervento legislativo correttivo, che possa ripristinare lo status quo, senza attendere un’eventuale pronuncia di incostituzionalità della norma da parte della Corte Costituzionale, alimentando, tra l’altro, sempre più il sentimento antipolitico che ormai pervade la nostra società: insomma, visti i tempi che corrono, agire spontaneamente e con responsabilità in tal senso sarebbe una buona risposta della politica.

Ruben Di Stefano