Caso banche: si vogliono distruggere quelle del territorio – di Stefano Zamagni

Caso banche: si vogliono distruggere quelle del territorio – di Stefano Zamagni

Su www.vita.it è stato pubblicato il seguente articolo dell’economista Stefano Zamagni che interviene sul cosiddetto ” caso banche ” perché legge le recenti, drammatiche vicende del crack di alcune banche italiane  sotto un punto di vista troppo trascurato dalla grande stampa e dalla informazione televisiva. Volentieri lo riprendiamo per metterlo a disposizione dei nostri lettori.

La vicenda delle quattro banche fallite è più seria di quanto si creda. Non si tratta infatti solo di errori compiuti, ma di un disegno più ampio che mira da un lato a modificare la natura propria dell’azienda bancaria e dall’altro a sottrarre ai territori le loro banche di riferimento, cancellando secoli di storia.Le banche sono nate storicamente per svolgere una duplice funzione: intermediare tra risparmiatori e imprenditori impegnati nella realizzazione di progetti di investimento, e trasferire la ricchezza da una generazione a quelle successive. Per questo le banche sono delle autentiche miniere di fiducia, un tesoro che non può venire meno, pena la decisione dei risparmiatori di non affidare più i loro risparmi alle banche. Di conseguenza la banca non è un’impresa come le altre, e non può avere come unico scopo quello massimizzare il profitto. Il suo compito è invece quello di accrescere il capitale sociale, base della fiducia, che come si sa deriva dal latino fides che significa corda, legame. La banca è quindi un potente cordaio, un ente costruttori di corde.

Cosa è accaduto però da circa 40 anni a questa parte? E’ accaduto che lentamente, per molte ragioni di natura sia culturale sia di interessi di parte, la banca è diventata simile a qualsiasi altra impresa, il cui obiettivo è massimizzare il valore per gli azionisti. E’ una delle conseguenze della finanziarizzazione dell’economia, aver reso le banche indistinguibili da ogni altra impresa. Si spiega allora come mai nel mondo il valore dei derivati circolanti ammonta oggi a circa 700mila miliardi di dollari, ovvero 12 volte il pil globale mondiale. E il denaro, che certo non manca, è diventato prigioniero di mercati finanziari autoreferenziali e speculativi, che succhiano la liquidità disponibile e restiuiscono all’economia reale solo il 7 per cento di quei 700mila miliardi, mentre il rimanente 93 per cento serve ad alimentare la macchina speculativa.

In questo quadro mondiale, il caso delle banche italiane ha delle sue specificità. La prima riguarda la non sufficiente capacità della nostra classe politica di difendere le nostre banche del territorio, anche nei confronti delle regole imposte dalla Bce, che non favoriscono la concessione di prestiti e finanziamenti. Inoltre non è stato rispettato il principio di proporzionalità che vorrebbe che non fossero applicati i ratios patrimoniali delle grandi banche a quelle piccole, o ancora che i criteri di riorganizzazione fossero diversi per i grandi istituti e per quelli di minori dimensioni. Tutto questo aiuta a capire come mai le quattro banche al centro dello scandalo abbiano venduto così tante obbligazioni subordinate, prodotti che soddisfano i ratios patrimoniali ma presentano anche rischi, che evidentemente sono stati taciuti alla clientela.

Ovviamente la responsabilità è delle banche imprudenti e poco trasparenti, ma è anche ovvio che queste siano state indotte ad agire in questo modo a causa degli esasperati interventi patrimoniali europei. In conclusione a me pare che esista un preciso disegno che punta ad eliminare le banche del territorio, non in maniera diretta, ma esasperando il rispetto di regole troppo pesanti per loro. Non si ha il coraggio di ammettere questo disegno, ma se si continuerà a ritenere le economie di scala e le ragioni dell’efficienza l’unico criterio di giudizio, a scapito del valore sociale e della fiducia, la strada è segnata. Bisognerebbe riaprire il dibattito e uscire dalle secche del tecnicismo, decidendo una volta per tutte il modello di società che vogliamo costruire.

Stefano Zamagni